La strategia della prevenzione della sicurezza sul lavoro. Le responsabilità e le procedure dell’analisi dei rischi [1/2]
Dai 13 anni di applicazione del D.Lgs. 626/94 emergono nuove strategie in materia di sicurezza sul lavoro. Strategie fondate sulla valutazione del rischio, la base della piramide della sicurezza.
Nel corso del convegno “La strategia della prevenzione della sicurezza sul lavoro. Le responsabilità e le procedure dell’analisi dei rischi”, l’intervento del dott. Bruno Giordano, Magistrato del Tribunale di Milano, riporta, attraverso alcune importanti sentenze, il bilancio di questi anni e le nuove strategie che ne emergono.
Un intervento che affronta alcuni importanti aspetti relativi alla responsabilità, in particolare il concetto di “responsabilità organizzativa”, emerso in importanti recenti sentenze in materia di lavoro.
Di seguito riportiamo alcuni stralci dell’intervento del dott. Giordano. La seconda parte verrà pubblicata sui prossimi numeri.
“Il concetto di valutazione del rischio lo conosciamo in Italia già dalla riforma del sistema sanitario, perché la 833 del 1978 già l’aveva introdotto, delegandolo però al sistema sanitario nazionale.
Il D.Lgs. 626/94 invece lo ha spostato sul singolo datore di lavoro. Il D.Lgs. 626/94 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 13 anni fa, non è una novità.
Ogni volta ne parliamo come se fosse una pubblicazione di ieri mattina, ma è da ben 13 anni che queste norme dovrebbero essere applicate.
In questi anni infatti si sono applicate. Cosa è venuto fuori? Questa applicazione, questa esperienza nel fisiologico e nel patologico […], ci hanno insegnato che qualcosa nella struttura c’è, esiste, e che una strategia, già nella norma e poi operativa, effettivamente è realizzabile.
Oggi possiamo parlare di nuove frontiere della sicurezza sul lavoro, nel senso che è apparso un mondo che 10 anni fa, leggendo semplicemente le norme, non era così chiaro o, forse addirittura in alcuni casi, non ci aspettavamo.
Abbiamo un dato ormai storico e un dato reale dal quale possiamo partire.
Questi dati non numerici, non quantitativi, ma dati di esperienza, li possiamo riassume in alcuni punti.
Il primo è quello della valutazione del rischio.
Vi sono poi altri punti come il nesso di causalità tra l’organizzazione del lavoro e gli infortuni […], la responsabilità di questi soggetti a partire dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione, fino ai nuovi soggetti che sono apparsi nel mondo della sicurezza (ad esempio nella cantieristica edile il committente, il responsabile dei lavori, i coordinatori, ecc…).
Vi è poi quello che secondo me è il nuovo punto della applicabilità delle norme in materia di sicurezza - per applicabilità intendo della possibile applicazione ragionevole delle norme in materia di sicurezza - e cioè la pubblica amministrazione. Perché il vero scandalo italiano è che in Italia si chiede con una legge a tutti di applicare le norme in materia di sicurezza del lavoro, ma il primo soggetto che ha scritto queste norme, cioè la pubblica amministrazione, in qualche modo è l’ultima che le deve applicare e le deve realizzare, a cominciare dal settore scolastico, dove continuiamo a fare delle proroghe per scoibentare l’amianto dalle scuole. E questo è il vero punto cruciale. […]
Chiariamo questi punti cruciali, e cerchiamo di dire cosa è successo in questi anni.
Il primo è quello della valutazione del rischio, che è il principale perché è il punto in cui si chiede al datore di lavoro di sottoscrivere un documento di valutazione che raffigura la mappatura del rischio che vi è all’interno di quel luogo di lavoro.
Ci siamo accorti in questi anni che questo onere è stato interpretato, all’inizio soprattutto, come un onere burocratico. […]
Per i primi anni si sono moltiplicate le valutazioni “fotocopia” e, quindi, una inutile valutazione del rischio generica, o generale, o generalista [..].
La giurisprudenza ha messo a fuoco questa importanza della valutazione del rischio.
Il primo processo in cui ci si occupò di questo fu quello per la strage della camera iperbarica dell’ospedale Galeazzi di Milano, nella quale perirono 11 persone.
Il processo mise a fuoco che il primo nucleo che faceva venire meno tutto l’impianto di sicurezza […] era proprio una valutazione del rischio fatta stampando quello che era il contenuto di un dischetto, che veniva allora commercializzato da una nota casa editrice. E quindi non era una vera valutazione del rischio, perché il rischio, che era in quel caso il rischio di incendio, veniva definito con tre parole: “pericolo di incendio”.
E noi nella sentenza ritenemmo che la valutazione del rischio deve essere innanzitutto una valutazione, cioè deve dare un valore, non deve essere una mera descrizione.
Ad esempio se dici: “in questa sala c’è pericolo di incendio”, ma non mi hai valutato qual è l’incendio, qual è il volume di fuoco, non mi hai detto quale importanza potrebbe avere questo incendio rispetto alle strutture, alle persone ecc.. e soprattutto se non valuti l’incendio, o il rischio che hai, come fai poi a descrivere qual è la misura appropriata (lettera b dell’art. 4 2° comma) per combattere questo tipo di rischio? Se non mi dai il peso specifico, se non me lo quantifichi e non lo valuti, io non posso stabilire se la misura che hai adottato è coerente e congrua.
Cito questa sentenza non perché è una mia sentenza o perché l’ing. Mulè [n.d.r. Dirigente Ispesl, uno dei relatori del convegno]ha fatto lì il perito, non è una autocitazione, ma perché quella fu la prima sentenza che diede luogo a tutta una giurisprudenza che ora citeremo.
Da qui la giurisprudenza si è mossa in numerose sentenze, per specificare che la valutazione del rischio non solo è un compito non delegabile, che deve essere tecnicamente e culturalmente preparato dal servizio di prevenzione e protezione, ma è obbligatoriamente un compito non delegabile del datore di lavoro proprio perché il centro della piramide della sicurezza.
Senza la valutazione del rischio non puoi stabilire le misure, non puoi stabilire se sono appropriate e fare una vera formazione e informazione, perché la formazione e l’informazione ha per oggetto il rischio che lì è presente. E se non l’hai valutato, la formazione diviene solo una attività burocratica, forzata, tanto per provare che hai fatto qualcosa, per documentarla, ma non è una vera formazione e informazione.
Non solo, ma la giurisprudenza sulla valutazione del rischio in questi anni ha messo in luce un secondo profilo, secondo me più illuminante per la nostra attività quotidiana di operatori della sicurezza in tutti i campi, imprenditoriale, pubblica amministrazione, sanitario, del controllo, dello studio, ecc..
E cioè che la valutazione del rischio, […], è una valutazione che deve avere per oggetto l’organizzazione del lavoro.
Perché espressamente si parla di sistemazione dei luoghi di lavoro; quindi non è solo la fotografia e la misura di quel tipo di rischio (che è il rischio incendio, che è il rischio caduta, che è il rischio scivolamento, ecc…), ma si deve valutare la sistemazione dei luoghi di lavoro, cioè quella che l’art.3 lettera f descrive come rispetto dei principi ergonomici nella sistemazione dei luoghi di lavoro, nell’organizzazione del processo produttivo.
Questa è la rivoluzione che oggi noi ci accingiamo a gestire nel campo della sicurezza, e cioè che la sicurezza non nasce soltanto dalla sicurezza del posto di lavoro o del luogo di lavoro, ma nasce dalla sicurezza dell’organizzazione del lavoro e cioè di fattori organizzativi, produttivi, umani, finanziari, economici, logistici, che nel complesso possono creare un fattore di rischio ancorché non percettibilmente attribuibile al ruolo di tizio o di caio [...].
Questa intuizione che vi è nella legge ha portato sempre in modo più frequente a mettere in luce un nuovo campo di responsabilità. Oggi parliamo sempre più spesso di colpa, ma non di colpa individuale del singolo datore di lavoro, ma di colpa d’organizzazione.
Cioè la colpa per i disastri colposi, per l’omicidio colposo, l’incendio colposo, non nasce dal singolo ruolo, dalla decisione del datore di lavoro di comprare queste scarpe antiscivolo piuttosto che quel casco protettivo ecc…, ma nasce da come è stato organizzato quel luogo di lavoro, da come è stata pianificata l’integrazione tra ciclo produttivo, attività umana, attività amministrativa, ecc…
La più grande tragedia italiana che è legata alla violazione di norme in materia di sicurezza del lavoro, e cioè la strage di Linate con 118 morti, nasce da un problema organizzativo.
Siamo al terzo processo a Milano e questo ormai è stato messo a fuoco in tutti questi passaggi: 118 morti perché non si è organizzato bene quello che c’era. Mancavano alcune cose, ma l’incidente non nasce perché mancava qualcosa, ma perché quello che c’era non era organizzato bene.
Pensate alla colpa che sta affiorando sempre di più nell’ambito nelle strutture sanitarie; il Policlinico di Roma, il trapianto sbagliato a Firenze, per citare solo alcuni casi di cronaca. E’ un problema non di colpa individuale del singolo primario, ma di come è stato organizzato quel servizio, di come si è cercato di fare prevenzione, senza pensare alla colpa individuale di ciascun soggetto.
E questo nei processi, noi che dobbiamo scrivere della responsabilità penale personale colpevole di un individuo, ce ne accorgiamo sempre di più, perché ci rendiamo conto che certe cose non sono più tradizionalmente attribuibili al datore di lavoro come figura dominus, come se tutti i luoghi di lavoro fossero la fabbrichetta in cui il padrone comanda su tutto e se qualcosa non ha funzionato sei tu che ci dovevi pensare; è sempre più distribuita, ci sono servizi all’esterno e quindi l’integrazione e l’organizzazione di ciò che viene internalizzato è sempre più attribuibile a soggetti che non sono il datore di lavoro, cioè il presidente della spa o l’amministratore delegato, ecc
Anche sul piano tecnico le valutazioni del rischio non colgono questo.
Ad esempio sempre di più occupandoci delle malattie professionali, ci rendiamo conto che i fattori causali , al di là della noxa, quindi del fattore nocivo (l’inalazione di questa polvere o il lavoro rumoroso, ecc..) che è il fattore scatenante sul piano eziologico, ma la malattia professionale è attribuibile a fattori organizzativi e spesso fattori organizzativi di tipo psicosociale, pensiamo al mobbing.
Mentre per anni siamo stati abituati a tracciare il nesso di causalità tra la macchina e la lesione, tra l’impianto e la morte, oggi ci accorgiamo al di là di questi casi che vi è una infinità di infortuni, di malattie professionali, di danni che vengono cagionati non dall’oggetto, ma dall’organizzazione e alcune volte addirittura non dalla mancata organizzazione, a da una voluta organizzazione. Il mobbing è l’esempio di una voluta organizzazione che causa un certo danno, se è veramente mobbing, perché si è voluto organizzare quel posto di lavoro in modo tale da accantonare e umiliare le capacità di un certa persona.
E di tutto questo oggi le valutazioni del rischio oggi non tengono conto, non arrivano ancora tecnicamente ad appropriarsi di valutare questo rischio, eppure molte volte bastano poche righe. Ma quelle poche righe presuppongono una preparazione e questo tipo di sensibilità.”
Il seguito dell'intervento del dott. Giordano sarà pubblicato in un prossimo numero di PuntoSicuro.